Guerra e psiche

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Guerra e psiche

* di Lino Lavorgna

Da oltre due anni un Paese europeo, il cui ingresso nell’Unione Europea e nella NATO non è più oggetto del “se” ma solo del “quando”, sta subendo ancora una volta la feroce aggressione della Russia, il cui intento è di cancellarlo dalla carta geografica.

Sull’essenza e sulla brutalità di ciò che si sta verificando in Ucraina ho scritto molti articoli e purtroppo altri ne scriverò, con l’auspicio che si creino presto le condizioni per parlare di ben altre “invasioni”: quelle di cittadini di tutto il mondo che ivi si recheranno per abbracciare altri cittadini tristemente vessati dalla storia e contribuire a far sì che sui loro volti torni a splendere il sorriso. Ci vorrà del tempo, è inutile farsi illusioni, ma quando l’Ucraina avrà recuperato la sua dignità di esistenza e i territori ora in mano nemica ciò rappresenterà un dovere morale per ogni uomo degno di essere definito tale.

La tematica di questo articolo, invece, riguarda le implicazioni sociali registrate nei Paesi non direttamente coinvolti nelle azioni belliche ma che, per rispetto della dignità umana, a giusta causa sostengono il diritto dell’Ucraina di difendersi e in qualche modo cercano di aiutarla fornendo armi, assistenza militare e supporto economico, grazie anche al contributo solidaristico della “società civile”, che promuove raccolte di fondi e beni di prima necessità. Corsivo e virgolette servono a sancire il punctum dolens oggetto dell’articolo, rappresentato da quella parte di popolo che del sostegno all’Ucraina, sotto qualsiasi forma, proprio non vuol sentire parlare. Una parte di popolo contraria all’invio delle armi; adusa a parlare vacuamente di pace senza spiegare come ottenerla; a invocare Dio affinché intervenga per fermare il bagno di sangue durante gradevoli marce molto simili alle scampagnate domenicali, con un’ipocrisia che sconcerta dal momento che anche il più convinto dei credenti dovrebbe sapere che Dio non s’immischia nelle diatribe tra gli uomini (e se fosse vera la boutade costantiniana di Ponte Milvio avrebbe anche scelto la parte sbagliata, considerata la follia omicida che pervase Costantino pur di restare al potere); a invocare trattative e intese con non minore ipocrisia, dal momento che Putin non ha nessuna voglia di “intendersi” con chicchessia ma solo di imporre la sua volontà. La versione più becera di questa fetta di umanità esprime concetti più o meno simili a quelli che chi scrive si sente ripetere spesso a commento dei tanti articoli scritti negli ultimi due anni e mezzo: «Per quanto mi riguarda la Russia può fare dell’Ucraina quello che vuole; ho una famiglia da mantenere, uno stipendio da fame e faccio fatica ad arrivare a fine mese. I soldi spesi per l’Ucraina preferirei che alleviassero le mie condizioni economiche». Coloro che per titoli e ruolo sociale non possono permettersi di esprimersi a questi livelli producono ghirigori concettuali per far passare l’idea che “più armi si mandano all’Ucraina più dura la guerra”; che la “Russia non può essere né sconfitta né umiliata” (senza alcun riferimento ai massacri perpetrati); che “l’Ucraina deve accettare la realtà e arrendersi alla maggiore potenza bellica della Russia”, manifestando il fastidio per le richieste di aiuto da parte di Zelensky:  la smetta di rompere le scatole perché non abbiamo alcuna voglia di sacrificare una briciola del nostro benessere per un popolo di cui, sostanzialmente, nessuno sa nulla e a nessuno importa nulla.

Si registra, di fatto, una spaccatura sociale che vede due fronti contrapposti: uno che solidarizza con il popolo ucraino; l’altro che ingloba sia coloro che solidarizzano con Putin sia i cinici indifferenti, insensibili alle sofferenze altrui.

Dai media traspare quotidianamente lo scontro tra quelle che, con errata espressione, vengono definite “opposte fazioni”. Perché “errata espressione”? Perché nel momento in cui si accetta un confronto paritetico con chi sostenga il diritto della Russia a invadere un popolo e a farne strame, si conferisce dignità interlocutoria a soggetti le cui tesi scaturiscono precipuamente da fratture della mente e non da analisi che possono essere condivise o confutate.

Intendiamoci bene: non tutte le persone che “parlano a vanvera” sono cattive e le loro argomentazioni scaturiscono esclusivamente dalla paura: quella per i fatti già tangibili e quella che scaturisce da una possibile escalation dello scontro. La paura è una emozione che, nella maggioranza dei casi, ha matrice irrazionale e accomuna tutti gli esseri viventi quale risposta a una minaccia reale o percepita. A volte è così forte che induce chi la prova a comportarsi vigliaccamente: si fugge in caso di terremoto o di attacco terroristico senza preoccuparsi dei propri cari; si gira la testa dall’altra parte se si vede uno stupro di gruppo in qualche parco o un branco di bulli che picchia un ragazzo, per paura di rimetterci le penne, come talvolta è accaduto a qualche “coraggioso”. Se nei casi succitati il comportamento “pauroso” può generare disprezzo, sul piano della classificazione prettamente psicologica non vi è nessuna differenza con altre situazioni che, invece, vengono trattate generosamente. Chi scrive, per esempio, non ha nessun timore se durante una crociera dovesse trovarsi nel bel mezzo di una tempesta fonte di panico per gli altri crocieristi, ma diventa una divertente macchietta comica a bordo di un aereo, sudando le classiche sette camicie anche in assenza di perturbazioni, pur essendo consapevole che statisticamente un aereo è più sicuro di una nave. Ciò, però, fa solo sorridere gli amici, che non si sognano di definirmi un vigliacco, essendo ben consapevoli che non perderei tempo nel soccorrere una ragazza preda del branco e se solo avessi qualche anno in meno sarei al fianco dei valorosi soldati di Zelensky.

Al netto dei complici di Putin, che ovviamente non fanno testo e con i quali è inutile perdere tempo, bisogna fare molta attenzione quando si parla con soggetti che agiscono o esprimono concetti sotto l’impulso di una spinta irrazionale. Maltrattarli e definirli vigliacchi non serve a nulla. Con santa pazienza, invece, bisogna cercare di far comprendere loro che una società civile impone delle regole, a volte dure, dalle quali non si può prescindere se si vuole dare un senso alla propria vita. Soprattutto occorre far leva sul processo comparativo: come si sentirebbero se i soldati russi invece di stuprare ragazzine ucraine stuprassero  mogli e figlie? E se fosse la loro casa a essere bombardata direbbero lo stesso ai governanti dei Paesi amici di non mandare armi ai soldati italiani o implorerebbero in ginocchio il massimo degli aiuti? In pratica si deve cercare di “far ragionare” evitando ogni forma di accusa. Le fratture della mente vanno curate, come qualsiasi altra ferita. Chi si sognerebbe di offendere un atleta che non può correre la finale dei cento metri a causa della gamba ingessata per un incidente? Per quanto sostanzialmente diverse per genesi, entrambe le “fratture” abbisognano di essere curate e non di altro.

Chi sia nato dopo il 1945 la guerra l’ha vista nei film o studiata nei libri di storia. Il concetto di “combattere per difendere la propria Patria” è assente nel costrutto mentale di milioni di persone e tanto più incomprensibile quanto più lontani si sia, anagraficamente parlando, da quei terribili anni che hanno sconvolto il mondo. Cercare di farlo percepire con appelli intrisi di retorica, non scevri di rimprovero per l’insensibilità nei confronti di chi soffre perché la guerra l’ha in casa, non solo è tempo sprecato ma produce un effetto boomerang. Non bisogna arrabbiarsi per le reazioni palesemente sconcertanti, ma, restando calmi, far chiaramente percepire la superiore dimensione etica e culturale, utilizzano metafore  che possano indurre a “riflettere”. Chi scrive utilizza spesso, sia negli scritti sia nei discorsi,  lo scambio di corrispondenza tra Freud e Einstein, con ottimi risultati, avendo visto davvero tante persone riconsiderare il loro pensiero dopo pacate discussioni. (Di seguito i link a un articolo e a un video: Riflessioni sulla guerra e sulla paceRassegna multimediale – a partire dal minuto 9).  Solo facendo comprendere che nonostante la guerra sia la cosa più stupida partorita dal genere umano, le guerre vi sono sempre state, si può tentare  di far accettare anche il più ostico concetto contenuto nel monito “si vis pacem para bellum. I governanti, non solo italiani, per i limiti scaturiti dalla bramosia di potere, sono molto attenti agli umori dell’opinione pubblica: percependo ritrosia nei confronti di drastici interventi a sostegno dell’Ucraina, si regolano di conseguenza. Ne sa qualcosa in merito Macron, per esempio. Bisogna lavorare molto, pertanto, affinché si annullino gli effetti negativi dei SINAP (Soggetti con influenza negativa sulle altre persone) e cresca l’attività formativa ed educativa dei SIPAP (soggetti con influenza positiva sulle altre persone). Lavorare molto a livello di opinione pubblica e in fretta affinché i governanti recepiscano il cambio di umore e magari decidano anche di mettere mano a quell’Esercito europeo di cui finalmente qualcuno inizia a parlare. (Chi scrive ne parla da oltre mezzo secolo e nel lontano 1977,  vox clamantis in deserto, ne ha citato per la prima volta l’importanza anche in un articolo, pubblicato da una prestigiosa rivista).  L’Ucraina non può permettersi le lungaggini burocratiche per l’ingresso nell’Unione Europea e nella NATO e ha bisogno con urgenza di maggiori aiuti. Ogni giorno che passa, nell’attesa di interventi realmente risolutivi, muoiono soldati al fronte e civili nelle città. Di questi morti, purtroppo, anche noi siamo responsabili. Se ne facciano una ragioni i tentennanti governanti bravi con le parole ma non con in fati. Soprattutto se ne facciano una ragione i popoli d’Europa, perché continuare a nascondere la testa nella sabbia vuol dire solo che, prima o poi, nella sabbia finiranno con l’intero corpo.

* (Analista di geopolitica – Presidente Ass.ne “Europa Nazione”)

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